Salzburg, “Moïse et Pharaon” di Gioachino Rossini
UN'OPERA DA LEGGERE
Dopo il successo de “Le siège de Corinthe”, rifacimento del “Maometto II”, Gioachino Rossini rivide per l’Opèra di Parigi un’altra opera del periodo napoletano, il “Mosé in Egitto”, componendone una versione francese (Moïse et Pharaon) caratterizzata da un ampliamento della struttura musicale e drammatica e da un’orchestrazione più in linea con il gusto francese per l’aggiunta di danze e interventi corali. La differenza fra le due versione è anche di natura tematica, in quanto la francese privilegia il tema politico –sociale rispetto alla vicenda amorosa.
La decisione di proporre un nuovo allestimento di Moïse et Pharaon a Salisburgo è stata caldeggiata da Riccardo Muti, che dichiara preferire la versione francese, più “monumentale” e matura, che aveva già diretto con successo in apertura di stagione alla Scala nel 2003. Per questioni di budget, invece del costoso allestimento inizialmente previsto, il direttore stesso del festival Jürgen Flimm si è assunto l’onere di curare la regia della nuova produzione dietro un compenso simbolico.
La scena unica ed essenziale di Ferdinand Wögerbauer vede un immenso tronco di cono rivestito di tavole grezze posate sfalsate che si sviluppa in tutta altezza a costituire un ambiente chiuso in cui sono prigionieri gli ebrei e che ben suggerisce gli aridi declivi del monte Sinai. La scena neutra e atemporale funziona piuttosto bene e inserisce in una prospettiva più ampia senza inutili attualizzazioni il tema del conflitto politico e religioso fra due popoli dal dialogo impossibile. Le quinte nere del sipario si aprono e si chiudono per ritagliare la scena mettendo in rilievo il canto dei protagonisti e funzionano da schermo per proiettare a caratteri cubitali testi tratti dall’antico testamento.
La componente spettacolare e soprannaturale è ridotta al minimo, sparuti lampi di accendini ricreano il prodigio del fuoco nel roveto, le tenebre che opprimono gli egizi non vengono evidenziate a livello visivo in quanto il palazzo del faraone è un candido salotto illuminato da luci violette come lampade abbronzanti. Nella scena del Mar Rosso gli ebrei in fuga abbandonano sul palcoscenico cumuli di logore valigie, onde simboliche che nella loro desolazione inanimata rimandano a tristi immagini dell’olocausto.
Flimm offre qualche spunto, ma non lo sviluppa fino in fondo, come i tre ragazzi sulla scala che dipingono di nero, con esasperante lentezza, per tutta la durata dell’opera i caratteri del comandamento “non uccidere” incisi nella parete, lasciando la scritta incompiuta. Difficile dare delle risposte.
La gestione delle masse è piuttosto statica e lo spettacolo non prevede, quasi a voler negare la componente di grand opéra del Moïse, danze e coreografie propriamente dette. Le danze e le pagine sinfoniche sono risolte con proiezioni di testi biblici che scorrono a cascata sul sipario, come il lungo passo sulle piaghe d’Egitto che sostituisce le danze del terzo atto. Il grand opéra diventa testo, l’idea può funzionare in quanto dà maggiore verità storica alla “rivisitazione” rossiniana della vicenda biblica, ma è talmente preponderante (e di limitata fruizione in quanto solo in tedesco), che risulta preferibile chiudere gli occhi e abbandonarsi al piacere della musica e della straordinaria direzione di Riccardo Muti.
Il direttore italiano dipana la massa architettonica con una concertazione aulica e composta assicurando continuità a una partitura un po’ dispersiva, mantenendo alta l’attenzione sulla struttura musicale di cui coglie leggerezza e solennità, attento a restituire con chiarezza e sensibilità i diversi colori e piani sonori senza prevaricare il canto.
I Wiener Philarmoniker, impegnati al massimo a seguire le intenzioni del maestro, dimostrano in questa occasione di essere all’altezza della loro fama, rispondendo con un suono sontuoso e vellutato di perfezione canoviana che manda letteralmente in estasi.
In un’opera marcatamente corale anche il Wiener Staatsopernchor si conferma di altissimo livello per un’esecuzione all’unisono, precisa e commossa, carica di emozione.
Nel ruolo di Moïse Ildar Abdrazakov sfoggia voce duttile e ben timbrata dimostrandosi interprete sensibile, anche se, oltre a un maggiore peso vocale, manca quel carisma proprio del condottiero-profeta.
Eric Cutler risolve brillantemente tutte le difficoltà vocali e interpretative che lo scomodo ruolo di Aménophis pone. La voce non è “bella”, ma ben controllata e non priva di fascino, ed è l’unico a creare un personaggio “forte” nella sua negatività: sgradevole, beffardo, velenoso.
Marina Rebeka (da noi apprezzata nell’Eugene Onegin a Cagliari, recensione presente nel sito) ha trionfato nel ruolo di Anaï per la voce di purezza cristallina, omogenea e sicura in tutti i registri, riportando grande successo personale. Se la resa vocale è perfetta, quella interpretativa è da approfondire.
Nicola Alaimo, dopo un’iniziale cautela, acquisisce maggiore sicurezza e scolpisce un solido Pharaon.
L’affascinante Nino Surguladze viene valorizzata da sofisticate acconciature ed abiti da sera, ma la sua Sinaïde convince anche per indiscutibili meriti vocali.
Juan Francisco Gatell è un Eliézer corretto di voce leggera, Barbara di Castri è una Marie impeccabile. Il basso Alexey Tikhomirov è un Osiride ieratico di peso adeguato. Concludono il cast Saverio Fiore nel ruolo di Aufide e Ante Jerkunica voce misteriosa.
Alla fine applausi per tutti, ma soprattutto a Muti, indiscusso trionfatore e deus ex machina della produzione.
Visto a Salzburg, Grosses Festspielhaus, il 25 agosto 2009
Ilaria Bellini
Teatro